La creazione di uno spazio comune di libertà, sicurezza e giustizia costituisce uno degli obiettivi primari dell'Unione Europea, secondo quanto stabilito dal Trattato di Maastricht del 1992, che ha dato vita al c.d. "terzo pilastro" (Giustizia e affari interni). Il Trattato di Amsterdam del 1997, in particolare, ha ampliato notevolmente le competenze dell'Unione in questo settore, nella convinzione che il diritto alla libera circolazione delle persone, delle merci e dei capitali non possa prescindere dalla creazione di uno spazio europeo all'interno del quale siano garantite condizioni di sicurezza e di giustizia. Il Consiglio europeo straordinario svoltosi a Tampere (Finlandia) il 15 e 16 ottobre 1999 - primo vertice europeo dedicato esclusivamente al settore giustizia e affari interni - ha da ultimo individuato priorità ed orientamenti programmatici per la realizzazione del terzo pilastro. Proprio la Commissione è stata invitata, nell'occasione, a presentare proposte di atti normativi e/o comunicazioni nei vari settori e ad elaborare un apposito quadro di controllo - da riesaminare semestralmente a conclusione di ciascuna presidenza - che consenta di monitorare lo stato di avanzamento delle misure da adottare, assicurando la trasparenza e le informazioni necessarie, anche rispetto al Parlamento europeo. Potete illustrarci quali sono i passaggi più significativi del dopo-Tampere, anche in relazione all'adesione alla Convenzione delle Nazioni Unite sulla criminalità organizzata transnazionale, al ruolo e alle competenze di EUROPOL, alla creazione di EUROJUST?
Salazar - Il Consiglio europeo straordinario di Tampere ha di certo costituito un punto di passaggio fondamentale nella costruzione di uno Spazio europeo di libertà, sicurezza e giustizia. Per la prima volta i Capi di Stato e di Governo non soltanto testimoniavano del loro impegno politico a procedere in questa direzione ma venivano nel contempo a dettare anche le singole tappe di tale processo entrando nel concreto, con un livello di dettaglio sino ad allora impensabile, delle singole realizzazioni da compiere. I "pilastri" posti nelle conclusioni di Tampere, ed in particolare il principio del mutuo riconoscimento delle decisioni giudiziarie (tanto in materia civile che in quella penale) e le concrete misure di lotta alla criminalità organizzata, appaiono ormai costituire un "acquis" politico il quale, pur potendo di certo richiedere tempi più o meno lunghi di realizzazione, non appare più comunque suscettibile di venire rimesso in discussione.
In tale quadro, e concentrando necessariamente la mia risposta sul settore della cooperazione giudiziaria penale, la rapida realizzazione dell'unità di cooperazione giudiziaria denominata Eurojust costituisce sicuramente uno dei risultati di maggior portata. Eurojust nacque, nello spirito dei decisori di Tampere, dalla volontà di offrire sul piano giudiziario un soggetto in qualche modo comparabile all'Ufficio europeo di polizia, in sostanza una "Europol dei giudici", come venne allora detto. Preceduta (come già fu il caso per Europol attraverso l'Unità Droga Europol) dall'esperienza di un'Unità provvisoria che ha operato per circa un anno, Eurojust costituisce il primo vero tavolo giudiziario europeo dotato, in quanto tale ed attraverso i suoi membri, di concreti poteri incidenti sull'attività giudiziaria e diretti essenzialmente al fine di garantire una migliore conduzione e coordinamento delle indagini a carattere transnazionale.
Dopo l'11 settembre credo che sia poi necessario operare una distinzione tra "ordinario" ed "eccezionale", nella misura in cui anche in Europa, come è spesso avvenuto in Italia soprattutto in passato, si legifera talora in condizioni di emergenza e sotto l'impulso di fornire risposte immediate ad eventi straordinari. Ciò è accaduto non solo nel caso della lotta al terrorismo ma anche in quelli della lotta alla pedofilia (soprattutto sulla scorta dell'emozione creata da alcuni orribili casi verificatisi in Belgio), della lotta alle reti di traffico di immigrazione clandestina e di esseri umani (in particolare dopo lo sconvolgente episodio verificatosi a Dover dove vennero rinvenuti all'interno di un container decine di cadaveri di persone che cercavano di entrare clandestinamente in Inghilterra) ed in altri casi ancora. Tale tendenza non mi sembra necessariamente negativa e, in qualche modo, può contribuire a rinforzare l'immagine di un'Unione meno lontana dalla realtà e pronta a rispondere alle aspettative e preoccupazioni dei cittadini europei. Occorre tuttavia che non si perda di vista il quadro di insieme e che le iniziative assunte non vadano a discapito della coerenza di un disegno strategico già di per sé assai difficile da costruire e governare da parte di 15 (e presto 25!) Stati membri.
Politi - Un passaggio poco notato dai commentatori generalisti, ma di grande importanza è stata l'adozione al vertice europeo di Laeken della proposta della Commissione per una definizione comune di terrorismo. L'opinione pubblica conosce sin troppo bene, anche in tragici momenti, il detto "Il terrorista di uno è il combattente della libertà di un altro". La definizione europea evita gli scogli di una definizione legata a criteri politici, ma individua con precisione il reato terroristico come una fattispecie di associazione per delinquere con finalità politiche. E’ una definizione politicamente ed operativamente tanto più preziosa in quanto affronta con eleganza concettuale e rigore giuridico anche i possibili legami tra terrorismo e criminalità organizzata. Un'altra, e più controversa, proposta della Commissione è quella del mandato di arresto europeo. Alcuni paesi devono compiere un necessario e legittimo percorso di emendamento costituzionale per adottare concretamente questa proposta. Peraltro ci sono pochi dubbi che si tratti di uno strumento democraticamente gestibile, operativamente utile e politicamente conveniente. Basti pensare al vantaggio geopolitico di presentare uno spazio giudiziariamente credibile in ogni occasione in cui possano sorgere divergenze in ambito ONU o euroatlantico. EUROJUST, che sta adesso entrando in fase operativa, sarà un altro importante tassello. Non vanno dimenticate le proposte per un'armonizzazione delle leggi antirazziste, per un meccanismo che aiuti i collaboratori di giustizia nei casi di traffico di esseri umani e per il controllo della nuova anfetamina PMMA. L'azione intergovernativa è stata particolarmente brillante in risposta alla tragedia dell'11 settembre: i Quindici hanno adottato decisioni importanti nel giro di dieci giorni.
Salazar - Deve nel contempo sottolinearsi come talune delle misure più importanti tra quelle adottate in tempi estremamente rapidi dopo gli attentati, in particolare le due decisioni quadro in materia di incriminazione delle condotte di terrorismo e di mandato di arresto europeo, erano in realtà già da tempo in gestazione e costituiscono, in primo luogo, anch'esse attuazione del programma di Tampere, la prima in particolare sotto il profilo di una più efficace lotta alla criminalità, la seconda sotto quello del reciproco riconoscimento delle decisioni rese dalle autorità giudiziarie.
Anche l'adesione della Comunità, pur limitata alle sole parti di sua competenza, alla Convenzione di Palermo ed ai suoi protocolli mi sembra rappresentare un esempio in più della possibilità che si offre oggi all'Europa di giocare un ruolo autonomo sulla scena internazionale attraverso il ricorso a tutti gli strumenti offerti dai trattati, ed in particolare all'utilizzo di "posizioni comuni" nei negoziati internazionali, al fine di contrapporsi ad armi quantomeno pari ad altri Stati dotati di maggior peso individuale rispetto a ciascun singolo Stato membro, od ancora facendo ricorso alla possibilità aperta dal Trattato di Amsterdam di concludere accordi a 15 con Stati terzi anche nel campo della cooperazione giudiziaria penale e di polizia; proprio in questo periodo scenari di tal genere vanno aprendosi con partners del peso degli Stati Uniti e della Russia.
I nuovi scenari e le realizzazioni maggiormente mediatizzate, come la vicenda del mandato d'arresto europeo, non devono poi far dimenticare l'attività ed i risultati "ordinari" dei lavori dell'Unione, che non per questo assumono minore importanza. La conclusione della nuova convenzione di assistenza giudiziaria finalmente firmata nel maggio 2000 all'esito di oltre 4 anni di lavoro, gli strumenti giuridici adottati nel campo della protezione della nuova moneta unica europea, le nuove iniziative assunte al fine di combattere la cibercriminalità, le nuove "reti" finalizzate alla prevenzione della criminalità od all'assistenza delle vittime, il sempre più intenso sostegno finanziario offerto dall'Unione alle attività di formazione di magistrati e funzionari di polizia, sono tutti mattoni più o meno grandi che entrano comunque a comporre a pieno titolo il disegno di realizzazione di uno Spazio di libertà, sicurezza e giustizia.
Marotta - A circa due anni e mezzo dal Vertice di Tampere, registriamo luci ed ombre sullo stato di attuazione delle numerose Raccomandazioni adottate in quell' occasione.
L 'attività del Consiglio per raggiungere l'obiettivo della realizzazione dello spazio comune di libertà, sicurezza e giustizia si caratterizza indubbiamente per una rilevante produzione normativa. Ma è altrettanto indubbio un certo ritardo nella realizzazione di molti obiettivi importanti.
Nonostante l'orientamento politico si sia costantemente manifestato in modo chiaro e puntuale; nonostante l'attività di impulso e monitoraggio svolta dalla Commissione si sia rivelata preziosissima e direi pressoché insostituibile per una corretta impostazione dei lavori; ebbene, possiamo da più parti raccogliere segnali di insoddisfazione quanto alla concretezza dei risultati sinora raggiunti.
Purtroppo non esiste piena corrispondenza tra gli impegni che gli Stati membri man mano assumono, adottando unanimemente talune decisioni politiche - in qualche caso con piena coincidenza di intenti e apprezzabile rapidità decisionale - ed i conseguenti adempimenti a livello nazionale.
Tale anomalia potrebbe essere ascrivibile alla riluttanza da parte degli Stati membri a voler mettere mano ai rispettivi ordinamenti e alle rispettive organizzazioni amministrative, per operare modifiche sostanziali in settori ancora fortemente percepiti (soprattutto dalle burocrazie ministeriali) come una sorta di "riservato dominio" degli Stati.
Questo aspetto è tanto più evidente, se si pensa che con l'entrata in vigore del Trattato di Amsterdam sono stati introdotti - con le "decisioni quadro" e con le "decisioni" - forti caratteri di vincolatività agli atti adottati dal Consiglio. La riprova di quanto dico è fornita dall'andamento di talune discussioni in seno ai gruppi tecnici, in preparazione degli atti normativi del Consiglio. Sovente in quelle sedi si evidenziano contrapposizioni e fraintendimenti, che poi si traducono in una variegata messe di riserve su questo o quel punto dei documenti in discussione. E non sempre la reale sostanza di tali riserve è chiaramente ascrivibile a fondamentali principi costituzionali o a caratteristiche ordinamentali difficilmente rinunciabili, se non a prezzo di lunghi e difficili adattamenti legislativi e strutturali.
Recuperando per un istante un concetto "organicistico" dello Stato, direi che non è rara la "pigrizia intellettuale" nelle amministrazioni che difendono pretesi interessi nazionali degli Stati membri. In realtà, si tratta della fortissima resistenza al nuovo in molti di coloro che a Bruxelles partecipano nelle varie istanze ad un processo decisionale, che in molti riteniamo troppo lungo e macchinoso, per giunta ancora condizionato dal principio dell'unanimità.
A questo riguardo, la Commissione sta svolgendo un pregevole ruolo di controllo delle fasi realizzative degli obiettivi di Tampere, attraverso lo strumento dello "scoreboard", per garantire la necessaria trasparenza ai lavori e al contempo esercitare un'adeguata pressione sui soggetti responsabili delle scelte politiche, in particolare il Consiglio e gli Stati membri.
Vorrei a questo punto portare qualche esempio circa le "luci ed ombre" di cui parlavo all'inizio. Un primo esempio di carattere fortemente positivo mi sembra quello del controllo alle frontiere esterne ( comprese quelle future, dopo cioè che il processo di allargamento ai Paesi candidati si sarà realizzato). In questo campo, nettamente condizionato dalla drammatica espansione del fenomeno migratorio verso l'Unione Europea, un ristretto nucleo di Paesi - fra i quali possiamo senza dubbio mettere a capofila l'Italia - tra le diverse iniziative sta elaborando uno studio di fattibilità per la costituzione di una Polizia di Frontiera europea. La Commissione partecipa a questo progetto con un notevole contributo finanziario che copre 1'80% dell'intero costo. I risultati di questo studio saranno presentati in una Conferenza ministeriale che avrà luogo a Roma il 30 maggio 2002, ed è verosimile ritenere che da essa scaturirà un ulteriore impulso in questo specifico settore. Parallelamente, su preciso "input" italiano, è partito un altro studio di fattibilità, questa volta direttamente gestito dalla Commissione col contributo di esperienze di alcuni Stati membri, per quanto riguarda il controllo dell'immigrazione illegale via mare. E' augurabile che, una volta conclusi i due studi, si possa disporre di un quadro di conoscenze giuridiche e fattuali tale da poter correttamente attuare una chiara politica dell'Unione Europea sul controllo delle frontiere esterne.
Non possiamo parlare con altrettanto ottimismo per quanto riguarda lo sviluppo del ruolo e delle competenze dell'Europol, o per la creazione dell'Eurojust. Per quanto anche in relazione a questi due organismi le direttive politiche di Amsterdam e di Tampere fossero chiare e forti, in entrambi i casi il processo decisionale si è caratterizzato per numerosi "stop-and-go", a causa della particolare delicatezza posta da certi temi relativi alla cooperazione giuridica e di polizia.
Per quanto si riferisce ad Europol, tenendo conto dell'esperienza maturata negli anni passati, è emersa la necessità di avviare un processo di revisione, per rendere i meccanismi decisionali più rapidi, la struttura meno burocratizzata e l'organizzazione più efficace nella lotta al crimine organizzato. Tra le proposte in discussione - e le discussioni sono in ritardo rispetto ai tempi fissati nello "scoreboard" - si segnalano quelle relative alla partecipazione di personale Europol nelle squadre investigative congiunte, alla possibilità per Europol di attivare indagini negli Stati membri, all'opportunità di prevedere un accesso dell'Europol al Sistema Informatico Schengen, alla necessità di rivedere la disciplina del segreto Europol al fine di renderla più omogenea. Debbo purtroppo constatare, come corollario del principio di unanimità, che la presenza dell'Europol in squadre investigative miste - la cui utilità mi sembra di un’evidenza lapalissiana - sia ancora ritardata per la posizione isolata di un singolo Paese. Non vorrei che altre disquisizioni rinviassero senza alcuna necessità il potenziamento operativo dell'Europol.
Quanto infine all'Eurojust, ora che è stata formalmente creata, s'impone a mio parere un’approfondita discussione sulle sue funzioni in rapporto all'Europol. Troppo semplicisticamente, infatti, da parte di taluni si ritiene che questi organismi si pongano a livello dell'Unione Europea, come a livello nazionale si pone l'ufficio del pubblico ministero rispetto alla polizia giudiziaria, in funzione sovraordinata. Non è così, perché non si può misconoscere una funzione fondamentale di Europol, che è quella di scambio, analisi e sviluppo della cosiddetta "intelligence criminale", la quale si muove in ambito pre-processuale e non necessariamente conduce alla "evidence", alla prova cioè da valutare in sede di processo penale. Purtroppo questa distinzione, già concettualmente difficile da cogliersi, non trova nemmeno terreno facile in Paesi ove vige l'obbligatorietà dell'azione penale, come nel nostro.
Ritengo in ogni caso opportuno che il futuro Accordo, che dovrà disciplinare la cooperazione tra Eurojust ed Europol, si basi sui principi seguenti:
- piena reciprocità degli obblighi, in particolare quelli inerenti le informazioni sulle attività in corso;
- la collaborazione reciproca dovrebbe essere sempre oggetto di richieste specifiche, alle quali le parti potranno liberamente opporsi, specialmente se ciò dovesse determinare un rischio per il buon esito delle rispettive indagini;
- divieto di accesso alle banche dati rispettive;
- impossibilità per Eurojust di chiedere ad Europol l'avvio di indagini su casi specifici.
Gli eventi dell'undici settembre 2001 hanno posto la questione del terrorismo internazionale al primo posto dell'agenda delle priorità. Dal vostro punto di osservazione, quali sono i principali ostacoli e le maggiori difficoltà alla realizzazione del progetto di spazio di sicurezza comune, in particolare nel settore del terrorismo? Quali, invece, i più interessanti passi avanti degli ultimi mesi?
Politi - I principali ostacoli, nel campo del terrorismo e non solo, riguardano innanzitutto la speditezza delle procedure di arresto, estradizione e giudizio. Quando esiste la spinta politica, molti ostacoli vengono temporaneamente sospesi, ma ciò dura per un periodo troppo breve rispetto all'ampiezza obbiettiva dell'emergenza. Indipendentemente dalle priorità statunitensi in materia di terrorismo, frequentemente influenzate da comprensibili, ma non necessariamente compatibili interessi geopolitici e geoeconomici, la lotta contro il terrorismo (ed ancor più quella contro il crimine organizzato) è uno sforzo di lungo periodo che richiede cicli di azione rapida. Ogni volta che un arresto transnazionale richiede troppi passaggi burocratici, ogni volta che un'estradizione è un affare che si trascina per settimane, le reti terroristiche e mafiose guadagnano tempo prezioso. Le obiezioni più usuali sono che vi sono dei tempi tecnici e che lo stato di diritto va salvaguardato, ma entrambe sono poco convincenti nella loro genericità. Se i tempi tecnici sono lunghi, vi è qualcosa che è sbagliato nella tecnica, che non giustifica lentezze irragionevoli. Quanto allo stato di diritto, è consolidata constatazione che la lentezza giudiziaria è una violazione di esso e non una protezione della presunzione d'innocenza.
I progressi più interessanti si sono registrati su due fronti: affinamento dello strumento EUROPOL (aumento di bilancio per nuove attività antiterroristiche, regole per la trasmissione di dati a paesi terzi, definizione dello stato di agente EUROPOL) e la decisione di incaricare ogni presidenza di stilare un documento strategico sulle priorità da raggiungere nella lotta antiterrorismo. In connessione con questo nuovo impulso, va sottolineato l'importante precedente politico di un documento ENFOPOL per il Parlamento Europeo, che traccia un quadro delle attività e delle tendenze terroristiche in Europa.
Marotta - Ci sono fatti, nella storia delle nazioni e nella storia del mondo, che lasciano il segno nelle coscienze ma anche nelle istituzioni e negli ordinamenti giuridici.
Se è vero che "ex facto oritur jus", ciò è particolarmente vero per quegli eventi che, nel catalizzare l’attenzione dell’opinione pubblica e della politica, hanno svolto una funzione di "detonatore" per l’attuazione di riforme legali e strutturali, che altrimenti si sarebbero compiute secondo processi ben più lunghi e con risultati probabilmente meno incisivi. Mi riferisco, nella storia del nostro Paese, agli omicidi di uomini come Aldo Moro, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, e delle loro scorte. Lo stesso dicasi per gli eventi dell’11 settembre 2001, data che va considerata come un autentico spartiacque nella storia della cooperazione di giustizia e polizia.
Certamente il quadro generale del terrorismo internazionale si presenta oggi assai mutato rispetto a quello degli ultimi anni ’80, quando i principali protagonisti delle campagne terroristiche, condotte in Medio Oriente e in Occidente, erano gruppi palestinesi, talora strumentalizzati da altri Paesi.
I recenti avvenimenti hanno imposto un mutamento nelle strategie antiterrorismo, non solo per il senso di insicurezza creatosi pressoché in tutto il mondo, ma anche per la scelta di obiettivi fortemente simbolici, la rafforzata capacità offensiva, la contestualità degli attacchi e la localizzazione delle iniziative al di fuori delle tradizionali aree di crisi. Emerge dalle indagini una diversa strategia criminale, che si avvale di una nuova figura di terrorista, inserito nel tessuto sociale che lo ospita.
A fronte di un progressivo disimpegno delle organizzazioni palestinesi storiche, il "fondamentalismo" si impone sempre di più come ideologia ispiratrice delle maggiori organizzazioni terroristiche internazionali. I Paesi europei, pur non costituendo un obiettivo privilegiato, ospitano strutture operative dei gruppi fondamentalisti ben organizzate, pronte ad essere attivate qualora la "jihad" dovesse stabilmente estendersi al di fuori dei confini medio orientali.
In tale contesto, l’Unione Europea ha fornito prova di una inattesa capacità di risposta, adottando una serie di misure urgenti nel corso di riunioni straordinarie del Consiglio Giustizia e Affari Interni (20 settembre) e del Consiglio Europeo (21 settembre).
Tali misure hanno indubbiamente accelerato la cooperazione giudiziaria e di polizia tra i Quindici, e tra questi e gli USA. Degno di particolare nota è il "piano d’azione" adottato dal Consiglio Europeo, che tra l’altro prevede:
· il rafforzamento della cooperazione giudiziaria e di polizia attraverso l’adozione dell’ordine di arresto europeo e la definizione comune del reato di terrorismo;
· la compilazione di un elenco comune delle organizzazioni terroristiche e l’istituzione di squadre investigative comuni;
· l’adozione di provvedimenti diretti a contrastare ogni forma di finanziamento del terrorismo.
Una delle iniziative più innovative riguarda la costituzione in seno ad Europol di una "task force" sul terrorismo, avente per compito principale la neutralizzazione delle reti terroristiche di matrice fondamentalista islamica, a tal fine cooperando con le competenti strutture degli USA.
Dopo lo slancio iniziale, stanno emergendo dubbi sull’efficacia di questa "task force", che non solo ha sofferto di problemi di organizzazione interna, ma è stata anche sottoutilizzata nell’attività di scambio delle informazioni tra i Paesi membri e si è rilevata inadeguata quanto alle aspettative del potenziamento dei rapporti info-operativi con gli Stati Uniti d’America.
A base di ciò, esiste a mio avviso una scarsa chiarezza nel mandato iniziale e, ancora una volta, la discrasia tra volontà politica espressa dai governanti e la disponibilità di idonei strumenti normativi nel contesto internazionale. In altre parole, non sono ancora maturi i tempi per vedere concretamente ed efficacemente all’opera una simile "task force".
Ritengo, per concludere, che questa debba essere considerata uno strumento eccezionale e che, una volta esaurita la spinta emergenziale che ne ha determinato la costituzione, l’attività antiterrorismo di Europol debba rientrare nei suoi normali meccanismi, eventualmente potenziandone qualche aspetto strutturale.
Salazar - Anche se oggi può apparire strano affermarlo, sino all'11 settembre, nel quadro delle discussioni condotte a Bruxelles, era dato in qualche modo cogliere nei confronti del fenomeno terrorista (e di quegli Stati membri che si facevano propugnatori di più efficaci ed immediate iniziative in tale campo) quello stesso atteggiamento di talora infastidita "sufficienza" da parte di taluni Stati - il più delle volte (ma non sempre) appartenenti all'area nordica - che noi italiani avevamo già avuto modo di avvertire allorquando, soprattutto nel corso degli anni novanta, avevamo cercato di trasportare a livello europeo talune delle nostre più significative iniziative di contrasto alla criminalità organizzata, soprattutto di stampo mafioso, o di lotta alla corruzione.
Quasi che, all'interno di una Unione oramai senza quasi più frontiere interne, vi siano ancora Stati o regioni che possano ritenersi indenni da fenomeni criminali che, per loro stessa natura, hanno non solo vocazione ma spesso anche necessità di svilupparsi ben al di là dei ristretti confini nazionali.
I tragici fatti di New York sono di certo serviti a ricompattare un fronte unitario antiterrorismo ed a far superare in seno all'Unione difficoltà e diffidenze che, in tempi normali avrebbero di certo, se non ostacolato, comunque considerevolmente ritardato l'adozione di strumenti quali il mandato d'arresto, la decisione quadro sull'incriminazione delle condotte di terrorismo od ancora i regolamenti e le posizioni comuni adottate al fine di congelare i beni di organizzazioni e soggetti iscritti in liste di presunti terroristi. Tali realizzazioni sono senz'altro fondamentali e costituiscono un punto di non ritorno non soltanto sotto il profilo delle novità normative introdotte ma anche sotto quello dell'efficienza e rapidità del metodo di lavoro seguito ai fini della loro adozione, resi possibili unicamente dall'eccezionale volontà politica in questo caso dimostrata dai governanti europei.
Detto questo non può non rilevarsi come, trascorsi ormai alcuni mesi, le posizioni degli Stati membri tendano nuovamente (e forse fortunatamente) a variegarsi e vadano riemergendo toni ed accenti differenziati tra gli stessi i quali, pur senza rimettere in discussione l'acquis, possono tuttavia incidere sulla sua effettiva implementazione ed ulteriore sviluppo. Al tempo stesso non può non rilevarsi come taluni dei tradizionali fattori di ritardo che caratterizzano le procedure del terzo pilastro non vadano affatto attenuandosi. Basti pensare a come, dopo aver richiesto solo poco più di due mesi per pervenire ad un accordo sulla sostanza del testo, le già più volte citate decisioni quadro sul terrorismo e sul mandato d'arresto debbano attendere circa sei mesi se non più per vedere ufficialmente la luce in ragione delle pesanti procedure parlamentari proprie di alcuni paesi le quali non consentono di procedere alla adozione formale dello strumento e permetterne conseguentemente l'entrata in vigore.
Nella situazione attuale credo occorra ormai interrogarsi sulla necessità di meccanismi di monitoraggio, peraltro in parte già esistenti, idonei a consentire una verifica circa la effettiva implementazione, da parte dei singoli Stati membri, delle obbligazioni derivanti dagli strumenti adottati. Accanto a ciò mi domando anche se ed in che modo non debba farsi fronte alle croniche lentezze in tale fase di attuazione anche affrontando alla radice il problema della sfasatura creata da una situazione in cui alcuni Stati non danno il via libera alla adozione formale di uno strumento se non una volta già operati i necessari adattamenti al proprio ordinamento interno, mentre altri (come il nostro paese) procedono normalmente ad avviare tali aggiustamenti solo una volta che la fonte normativa che obbliga agli stessi sia stata formalmente adottata e pubblicata nella Gazzetta ufficiale comunitaria.
Accanto a tutto ciò non possono infine non ricordarsi altri fattori, di carattere più generale, che risultano comunque di ostacolo alla realizzazione del progetto di spazio di sicurezza comune. Tra questi mi limito a citare il principio di unanimità che regge l'adozione praticamente di ogni decisione in seno al Consiglio, obbligando quindi ad estenuanti compromessi e conferendo un sostanziale diritto di veto in mano a ciascuno Stato, nonché il "deficit democratico", legato allo scarso ruolo esercitato dal Parlamento europeo, che da sempre caratterizza i lavori del Consiglio in questo campo e fornisce facile argomento a coloro i quali, pur non avendo alcun interesse ad un rafforzamento effettivo del Parlamento stesso, pure cercano di speculare sulla ridotta democraticità e trasparenza che, in maniera difficilmente contestabile, caratterizzano i lavori dell'Unione.
Per quanto riguarda specificamente il settore dell'intelligence - partendo dal presupposto che fenomeni quali il terrorismo e la criminalità organizzata hanno assunto ormai connotati fortemente transnazionali e che ciò comporta la necessità di rivedere il concetto stesso di sicurezza nazionale - taluni osservatori si sono spinti ad ipotizzare un abbandono progressivo, da parte delle agenzie d'intelligence europee, dei tradizionali schemi competitivi, per addivenire a forme di integrazione anche dell'attività informativa per la sicurezza.
Quali sono, a vostro avviso, le prospettive per la creazione di una intelligence europea e con quali forme e modalità potrebbe positivamente sperimentarsi un'azione comune d'intelligence che vada oltre gli attuali rapporti di cooperazione tra Servizi?
Marotta - Il connotato sempre più transnazionale assunto dal terrorismo e dalla criminalità organizzata si accompagna al mutare degli equilibri internazionali. Nei nuovi scenari socio-politici è mutata la stessa figura tradizionale del "nemico".
Non a caso, la chiave del successo di alcune indagini, condotte congiuntamente da alcuni Paesi contro agguerrite organizzazioni criminali, risiede non solo nel fatto di aver riunito le forze, ma anche per aver applicato nei confronti di tali organizzazioni metodi investigativi basati sull’analisi criminale, a sua volta fortemente ispirata alle metodologie di analisi delle informazioni in uso nel mondo dell’"intelligence".
L’approccio analitico caratterizza ad esempio l’attività dell’Europol, che a tal fine dispone di un nutrito numero di analisti dell’intelligence che, a termini della convenzione Europol, sono i soli ad avere accesso ai dati personali contenuti negli archivi di lavoro a fini di intelligence.
Proprio l’esperienza maturata da Europol evidenzia la necessità di stabilire una piattaforma di cooperazione tra i Servizi di intelligence dei Paesi dell’UE, tra loro e con i Servizi specializzati di intelligence criminale delle forze di polizia ordinaria. E’ un dato di fatto che c’è un’interruzione nella catena di distribuzione delle informazioni rilevanti da un Servizio di intelligence all’altro.
Politi - L'idea di un'intelligence europea, espressa dal Presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, in un incontro bilaterale con il premier Tony Blair, esprime sinteticamente la desiderabilità politica di superare lo schema tradizionale di rapporti tra servizi d'intelligence basati sul trinomio competizione/baratto/collaborazione per temi. Secondo la felice espressione di un alto funzionario del BND tedesco (Bundesnachrichtendiest) "L'intelligence è forse l'ultimo baluardo della sovranità nazionale", ma questo baluardo richiede una ristrutturazione per evitare che venga (r)aggirato. Da un lato è sensato ed inevitabile cominciare con un approccio funzionale, ma non è meno importante avere una prospettiva politica in una materia così delicata. Le aree funzionali che si possono individuare sono tre: scambio di valutazioni d'intelligence nella prevenzione e gestione di crisi; lotta alla proliferazione di armi di distruzione di massa; alcuni tipi di crimine organizzato; alcuni tipi di terrorismo. La prima area è a vantaggio della PESC e potrebbe esserlo anche per alcune attività della Commissione. La seconda raccoglie un consenso universale, le ultime due vanno limitate ai temi di maggior consenso o costo/efficacia per evitare possibili delusioni. Su queste aree vanno creati dei gruppi di lavoro permanenti, basati a Bruxelles, in modo che, gradualmente, la collaborazione diventi strutturante per le diverse agenzie. L'area degli interessi informativi puramente nazionali sarà meno estesa, ma non per questo meno qualificata, perché le sinergie comuni libereranno risorse limitate e preziose.
Marotta - Tempo fa, citavo in altro contesto l’esempio delle missioni di pace nei Balcani, come esempio appropriato di tale necessità. In effetti, i contingenti di pace acquisiscono ed analizzano intelligence per fini militari, sia a livello strategico che tattico.
Parte di tali informazioni sarebbe di indubbio interesse ai fini di lotta alla criminalità. Le fonti di intelligence utilizzate dalle forze di pace, nonché l’osservazione quotidiana e il contatto con la popolazione locale hanno fornito informazioni cruciali per lo sviluppo potenziale di indagini contro la criminalità organizzata che colpisce l’UE. Tale aspetto assume particolare rilievo in aree quali la lotta a organizzazioni che facilitano l’immigrazione clandestina o attive nel reclutamento di vittime da avviare allo sfruttamento sessuale nell’UE.
E’ palese che tale intelligence non deve rimanere confinata all’interno delle strutture militari, e che bisogna trovare forme di comunicazione tra tali servizi di intelligence e gli altri, in una vera e propria "comunità dell’intelligence". A tale comunità va il compito di generare su base pragmatica un approccio all’intelligence di carattere globale, permettendo di utilizzare l’informazione disponibile per finalità molteplici, piuttosto che frazionarne e limitarne l’uso al solo scopo per la quale la singola informazione è stata raccolta.
Le prospettive per la creazione di un intelligence europea sono dunque concrete, a patto di seguire un approccio "bottom up", che parta cioè dai fatti e dalla prassi dell’azione quotidiana, piuttosto che imponendo un modello dall’alto. Anche in questo caso, è la funzione che sviluppa l’organo.
Bisogna peraltro ammettere che esistono alcune precise "pre-condizioni" per sviluppare tali prospettive. E queste sono:
· l’abbandono dell’approccio "nazionalistico" da parte dei Servizi di intelligence, essenzialmente basato sulle esigenze di politica estera dei singoli Paesi dell’UE, non ancora assorbite nel concetto di politica estera e di sicurezza comune;
· la convinta condivisione delle finalità ultime di ciascuna azione di intelligence;
· l’utilizzazione di metodi di analisi standardizzati, per attribuire a fonti e dati classifiche di valutazione facilmente riconoscibili, al di là delle differenze di lingua e di cultura professionale;
· l’accettazione da parte degli operatori di appartenere ad una "comunità", che per essere efficace, dev’essere ampia, "non parochial" e - per quanto possibile – trasparente.
Rispondendo alla domanda precedente, ho sottolineato i problemi di organizzazione interna che hanno afflitto la "task force" antiterrorismo creata per l’Europol.
Ebbene, mi sembra di capire che a base di tali problemi vi sia stata, assieme alla presenza di funzionari provenienti dalle forze di polizia ordinarie e da taluni servizi di intelligence, proprio il mancato riconoscimento di tali "pre-condizioni".
Salazar - Premesso che il settore sfugge al mio ambito di diretta competenza credo non possa prescindersi dal considerare l'esperienza di luci ed ombre sin qui avuta con l'Ufficio europeo di polizia.
Agli occhi di un osservatore esterno quale mi ritengo (e rischiando di certo di peccare in semplificazione), Europol mi sembra oggi sostanzialmente "schiacciato" tra l'assenza di poteri di intervento diretto - non essendo tuttora dotata di competenze operative e non essendo state ancora avviate le squadre comuni d'inchiesta alle quali potranno partecipare i suoi funzionari con funzioni di supporto - e, cosa particolarmente grave per un organismo di intelligence criminale, la limitata alimentazione di informazioni dipendente essenzialmente dalle polizie nazionali. Solo accrescendo, da un lato, l'operatività di Europol e, dall'altro, rinunziando a livello di organi nazionali alla custodia gelosa del proprio patrimonio informativo, al fine di favorire la circolazione e condivisione dell'informazione stessa, potrà realizzarsi una azione di law enforcement europeo che sarà tanto più efficace quanto più verrà condotta a livello europeo presentando un reale valore aggiunto legato alla confluenza delle diverse fonti informative nella disponibilità di un unico soggetto.
Al tempo stesso Europol dovrebbe a sua volta dimostrarsi in grado di saper gestire al meglio il patrimonio informativo a sua disposizione, offrendo un reale plusvalore di analisi agli organismi nazionali.
Tale disponibilità alla condivisione dell'informazione mi sembra essere la precondizione per qualsiasi reale discorso in materia di azione comune di intelligence costituendone al tempo stesso il più formidabile ostacolo da superare. L'idea appare comunque senz'altro stimolante e potrebbe forse venire coltivata nel corso della ormai imminente Presidenza italiana della seconda metà del 2003. Una recente iniziativa spagnola, diretta ad istituire una rete di punti di contatto di polizia e giudiziari finalizzata allo scambio di informazioni in materia di terrorismo costituirà forse una base utile per tastare il polso della situazione e verificare l'effettiva disponibilità dei singoli organismi nazionali di polizia a condividere le informazioni a propria disposizione.
Le vicende relative alle crisi balcaniche, a partire dal conflitto jugoslavo per arrivare alla crisi del Kosovo, nonché la risposta agli attacchi di New York e Washington, hanno posto in evidenza la necessità che l'Unione Europea assuma sempre più a livello internazionale il ruolo di un unico soggetto politico in grado di colloquiare alla pari con un interlocutore come gli Stati Uniti.
A vostro avviso, sullo sfondo della questione dell'allargamento dell'Unione, la creazione di uno spazio di sicurezza all'interno dell'Unione Europea e la realizzazione di una politica estera e di sicurezza comune (PESC) possono costituire due binari paralleli attraverso i quali favorire la creazione di un'unica Europa politica, delle istituzioni come dei cittadini?
Salazar - Ho già avuto modo di segnalare, rispondendo alla prima domanda, come la realizzazione di uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia non possa prescindere da una dimensione esterna dell'Unione rivolta tanto nei confronti dei principali partners della scena mondiale come pure di Stati di minor dimensione ma che possono offrire facile rifugio per soggetti ed organizzazioni criminali così come per capitali di origine illecita.
Al tempo stesso, come affermato anche all'interno delle conclusioni di Tampere, le tematiche Giustizia e affari interni dovrebbero essere integrate nella definizione e nell'attuazione di altre politiche ed attività dell'Unione il che dovrebbe in concreto comportare che tutto il rilevante peso economico di quest'ultima dovrebbe venire utilizzato anche al fine di ottenere dalle proprie controparti negoziali vantaggi concreti anche sul piano della cooperazione giudiziaria e di polizia.
Purtroppo, sinora, egoismi nazionali, che appaiono in taluni casi legati ad ormai superati interessi geopolitici, od ancora ingiustificate sudditanze nei confronti di alcuni Stati terzi sembrano impedire o rallentare il decollo di tale dimensione esterna e, con essa, della piena affermazione dell'Unione sulla scena mondiale.
Marotta - L'europeismo di coloro che pensavano opportunisticamente all'Europa unita solo come fattore di crescita economica e sociale deve far conto con un concetto più serio e nobile di Unione Europea, che veda l'accettazione non solo dei vantaggi ma anche degli oneri derivanti dalla creazione di un'entità ancora indistinta, per quanto la sua natura di soggetto politico internazionale vada affermandosi sempre più, anche a dispetto degli "europeisti di facciata".
Finita l’epoca del bipolarismo, nella quale avevamo delegato la tutela della sicurezza europea alla potenza militare degli USA, era impensabile che l’Unione Europea non fosse chiamata dall'unica grande potenza rimasta a maggiori responsabilità, quanto meno a partire dallo scacchiere balcanico. Questo varrà a maggior ragione nella prospettiva dell'allargamento da 15 a 27 Stati membri. In una sorta di adattamento della Dottrina di Monroe ("L'America agli Americani"), dovremo dire "L'Europa agli Europei".
D'altra parte, la stessa magnitudine dei problemi, ai quali i singoli Paesi europei si trovano oggi confrontati, fa sì che la dimensione nazionale sia ampiamente superata, e con essa ogni velleità di risolvere i nostri problemi in perfetta solitudine.
La dimensione continentale (o "regionale", secondo il linguaggio delle Nazioni Unite) appare dunque la più appropriata ad affrontare e risolvere i problemi cruciali che caratterizzano la vita dell'Europa agli inizi del Terzo Millennio.
Tale dimensione si applica tanto ai temi della sicurezza (lotta al crimine organizzato, al terrorismo, all'immigrazione illegale, allo sfruttamento della prostituzione, al traffico d'anni) che a quelli della PESC, a partire dalla possibilità entro il 2003 di dispiegare una forza d'intervento rapido nelle aree di crisi, e con essa lo sviluppo di un’adeguata capacità di polizia europea a supporto delle azioni militari di "peace keeping", nella convinzione che tali azioni siano tanto più efficaci, quanto più siano accompagnate dalla abilità dell'U.E. di intervenire con forze di polizia civile a ripristinare sollecitamente nelle zone di crisi la legge e l'ordine.
Sarà attraverso questi impegni e questi fatti che potremo realizzare un'Europa politicamente integrata, così come attraverso fatti come l'introduzione dell'euro o l'abolizione delle frontiere interne i cittadini dei Paesi membri si stanno sempre più abituando all’idea di un 'Unione Europea stabile, libera e sicura.
Questo comporta, per gli operatori di polizia come per gli addetti all'intelligence, un grosso sforzo di adattamento, di carattere culturale prima ancora che professionale, nella certezza che meglio potremo servire i nostri Paesi, meglio servendo l'Europa.
Politi - Ci sarebbe da osservare che i tre pilastri dell'Unione (Comunità, PESC, Giustizia ed Affari Interni) sono stati concepiti come paralleli a causa della loro diversità (sovranazionalità rispetto a diversi ambiti della cooperazione intergovernativa), ma che decenni di pratica politica ed istituzionale hanno richiesto collegamenti sempre più stretti fra di essi. In gergo diplomatico sono chiamati "passerelle" e si traducono in soluzioni pragmatiche a problemi reali. Come minimo ci troviamo, per parafrasare un nostro celebre statista, di fronte a "parallele convergenti", però queste soluzioni, se sono sufficienti nell'immediato, mostrano costantemente i loro limiti di fronte ad un'evoluzione sempre più rapida e, soprattutto, sempre più profonda. Uno spazio di giustizia e sicurezza interna è il naturale specchio di uno spazio politico, strutturato in parte da un mercato e da una moneta unici, che per forza di cose si proietta in una PESC. Il dibattito sulla cosiddetta costituzione europea rappresenta un’importante pietra di paragone istituzionale per la volontà politica rispetto alla costruzione dell'Europa. Detto francamente, l'unico modo per trovare una sovranità nazionale reale, non una sovranità capace solo di porre veti nella gestione subalterna del presente, è nel passaggio ad uno spazio politico europeo comune di cui lo stato nazionale è solo uno dei livelli decisionali sussidiari. Lo stato nazione risponde in parte ad esigenze di visibilità democratica, ma non risponde più appieno alle necessità delle democrazie europee di essere libere di decidere efficacemente del proprio futuro. Una superpotenza basta per l'intero pianeta, ma il destino dell'Europa è di avere la forza sufficiente per esprimere con il consenso di più di 300 milioni di cittadini (non consumatori) i suoi valori, la sua originale civiltà ed i suoi concreti interessi.
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